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Conventualità  1


(12.02.2015)

Forse non sempre noi si capisce il dono della conventualità. Siamo sì riconosciuti con l’appellativo di conventuali, ma nel lungo periodo di formazione il senso della conventualità non è stato molto sviluppato.

Nei nostri seminari, dopo un’infarinatura di vita religiosa (spesso nemmeno ricordata come conventuale) durante il noviziato, la formazione intellettuale e ascetica, si incentrava sul sacerdozio. Non un sacerdozio da vivere conventualmente, ma un sacerdozio un po’ parrocchiale, o, tutt’al più, missionario.

La cifra conventuale, dentro la quale vivere e la vita comunitaria e il sacerdozio, non compare che nmolto raramente. La prima conseguenza è che i giovani sacerdoti non badano alla loro appartenenza al convento, ma svolgono spesso un’azione da sacerdozio personale.

Circola il pericolo di una, diciamo così, contaminazione parrocchiale. Mezzi preti e mezzi frati: esigenza dei tempi? S. Francesco aiutava, all’occorrenza, anche le parrocchie, ma non creò parrocchie per i suoi frati.

Inoltre l’appartenenza al “convento” potrebbe essere soffocata dall’urgenza di appartenere alla “Provincia” o addirittura all’Ordine”. Questa è una delle conseguenze dell’organizzazione di tipo industriale, ciò che nel ‘700 e prima non era sentito.

L’appartenenza al convento, spesso potrebbe essere forzosa, per disposizione dell’autorità superiore, che trascura le dinamiche del gruppo, coprendole o esaltandole sotto la tenda della “santa obbedienza”.

Addirittura sto notando in alcuni sacerdoti frati delle ultime generazioni, un atteggiamento che direi da hotel. Abitazione, notte, cibo, lavanderia vanno bene; la confidenza e l’aiuto reciproco tra frati, per loro è un semplice trascurabile optional.

02.07.13

Conventualità  2

Solo una conventualità coesa può espandersi. Più è solida dentro di sé, più è forte per uscire e beneficare. I conventi non sono monasteri, che per definizione sono circoscritti in sé, sebbene oggi i monaci rivestano molte attività pastorali esterne.

I conventi sono ponti tra la gente. S. Francesco non si è ritirato in un eremo, ma ha voluto i suoi fratelli, in mezzo alla gente. Ai suoi tempi i monasteri erano collocati nelle campagne, anche per bonificarle, mentre i conventi si radunavano nelle città, privilegiando comunque le zone popolari o le periferie. Anche la chiesa di S. Lorenzo era alla periferia della allora piccola città di Vicenza.

Il convento era costituito a favore della gente. Il convento, che non sia a favore della gente, ma a favore dei frati, ha sberciato la propria finalità.

Tuttavia per essere forza propulsiva per la gente, il convento deve essere una fraternità unita. Allora è bene che ogni convento impari a scoprire e a vivere quelle dinamiche psico-sociali, che davvero uniscono i frati.
Una comunità conventuale è zoppa se i frati non si conoscono. Troppi silenzi, e troppa paura di svelarsi, perché i frati sono educati più al moralismo della critica che alla comprensione e alla scoperta del valore dell’altro o degli altri. L’educazione a interpretare le azioni sotto la luce esclusiva del bene o del male secondo l’etica, che crea alcuni moralismi, rende i conventi unilaterali nei giudizi, perché si osservano le azioni (le azioni, non i cuori!) sotto la luce morale. Del resto ciò è ovvio durante la formazione: dopo cinque anni di “teologia morale” e un solo anno di “dinamica psicologica”, la mentalità si abitua a giudicare, di solito, senza amore.

03.07.13

Conventualità 3
Non è pericoloso promuovere la profonda coesione in un convento? Non è un chiudersi a riccio, trascurando gli altri?

Questo sarebbe un pericolo se la comunità, osservando le regole, restasse inoperosa. Invece il rinforzare i legami e le dinamiche vere di un convento, rende più potente l’azione fuori convento.

E’ esperienza giornaliera il sentire più energia nel nostro operare, quanto più ci sentiamo amati, e sentiamo un forte appoggio alle nostre spalle. La coesione affettiva potenzia il lavoro. Altrimenti il lavoro dei singoli, spezzettato e staccato dalla comunità, perde di efficacia, e il singolo entra in angoscia (espressa anche con l’aggressività) accorgendosi di essere lasciato solo. Lasciato solo, ma anche criticato e invidiato. (Angoscia reale questa, sebbene il soggetto si sforzi di non avvertirla).

Si prospetta a questo punto la necessità della stima reciproca e della lode della comunità per il lavoro affrontato dai singoli e dal gruppo. Una lode non formale, ma convinta.

Lode, invece di invidia e di disapprovazione. Questo può accadere soltanto se il parlarsi e il comunicarsi all’interno del gruppo, sono resi possibili dal rispetto dell’azione di ogni membro. I frati muti, o bilaterali, intristiscono i conventi. Muti, se non comunicano con nessuno, bilaterali se tacciono in comunità e possono essere parolai con le persone esterne alla comunità. Parolai, non comunicativi, perché se non si aprono con coloro con i quali convivono, vestono un abito falso per farsi lodare da chi non li conosce.

Dal dialogo l’efficacia dell’apostolato. Ovviamente il primo dialogo è con Gesù nell’Eucarestia. Però chi non comunica in comunità, neppure durante i “capitoli conventuali” è propenso, durante l’Eucarestia, più a seguire le rubriche che ad aprire il cuore.

04.07.13

Conventualità e storia 4
Prima delle ultime riforme, la conventualità era la base dell’Ordine, come la famiglia era alla base della società civile. Poi gli accentramenti, sempre più sviluppati nel periodo industriale, depotenziarono conventi e famiglie, per esaltare l’Ordine e lo Stato, fino alle forme estreme di Stato totalitario.
Le famiglie esaltavano la loro ascendenza, i padri, gli avi, i bisavoli ecc. fino a scoprire le prime radici della famiglia in una saga autocelebrante. Oggi, soprattutto dopo il dilagare dei divorzi, il passato è dimenticato, il futuro interessa poco, il presente è sempre incerto: serve il vivere nell’ora, o tutt’al più nel “carpe diem” (= approfitta del presente), senza progetti seri.
Purtroppo questa stessa mentalità si è infilata anche nella vita conventuale, nella quale la precarietà è paludata dal nobile manto dell’itineranza, ossia del non avere né radici né futuro.  E poi molti si lamentano per il disinteresse, che i frati nutrono verso la propria casa.
I conventi sembra siano senza storia e senza futuro, per vivere alla giornata.
Ogni futuro cammina con le gambe del passato. Però il frate che “casca” in un convento (spesso senza sceglierlo), si trova in una situazione disorientata. Potrebbe orientarlo la conoscenza del passato, la storia di quel convento. Ho notato, invece, una costante nei frati nuovi del convento: la voglia di novità distruggendo il “già presente”. Così si troncano le gambe al passato e neppure il futuro può camminare. Tanto più che la novità, rischia di essere intesa dai frati recentemente giunti come voglia di riprodurre ciò che altrove avevano vissuto: altro ambiente, altra vitalità..
Chi non conosce la storia del luogo dove vive (come avviene per gli extracomunitari!), non ha la forza per avanzare in un futuro positivo e costruttivo.

05.07.13

Conventualità e amore 5

La conventualità, nella sua essenza, è realtà di amore. Dove, nel nome di Gesù, ossia con la sua presenza, si radunano alcune persone, Gesù, trasmettitore dell’amore di Dio, è presente. Perciò la conventualità, unione di persone in Gesù, è amore.

Amore a Dio. La preghiera comune attiva e moltiplica la preghiera di Chiesa. I sacramenti, Eucarestia concreta, sono indice e spinta dell’amore di Dio. Senza approdo a una comunità, io non avrei conosciuto e amato Gesù, il Padre, lo Spirito Santo, con l’intensità di grazia, con la quale il Padre mi ha dato il dono di amare.

Amore tra fratelli. Questo richiedeva Francesco. Le comunità sono costituite solo in vista dell’amore, altrimenti degradano a convivenza, o a giustapposizione. Quando, nella disciplina odierna, i superiori formano le comunità, hanno il magnifico, e spesso non facile, compito di unire quelle persone che possono alimentare l’amore, sia per la compatibilità dei caratteri prima di tutto, sia per la loro disposizione a inserirsi umilmente e senza pretese nel contesto, sia per entrare in una situazione promozionale della persona.

Amore verso il convento. Non fa conventualità, chi si estrae dalla comunità per compiere attività, anche molto positive, fuori gruppo. Anche le azioni all’esterno, per quanto nuove, diversificate e struggenti, devono essere vissute come propaggini della conventualità.

Nell’amore al convento un posto gioioso copre l’amore alla chiesa conventuale (Ne parleremo). La chiesa conventuale, nella nostra città, sorse prima ancora dell’annessa abitazione dei frati. Il convento è tutto il complesso edilizio.formato da chiesa e da abitazione. Trascurare la chiesa conventuale per qualsiasi motivo è disprezzare convento e frati, e distruggere la conventualità.

07.07.13

Conventualità e amore 6

La conventualità è il luogo dell’amore.  Come la famiglia e ogni gruppo radunato: ogni paternità (famiglia) è da Dio, dice Paolo.

L’amore però non è un dato, ma una conquista lenta, progressiva e dinamica. Come qualunque vocazione o professione. Chi esige amore per sé, non ama, perché l’amore è dono. Pretendere amore è la manifestazione più chiara di assenza d’amore. La sete di essere amati è spesso opposta alla sete di amare.

Solo il bambino ha il diritto di esigere amore, perché dall’amore ricevuto egli apprende l’arte di amare. L’adulto ha la chiamata a costruire il proprio amore proprio mentre dona amore. L’amore, in un convento, si costruisce quotidianamente, con il donare amore. Il convento diventa una palestra per amare, mentre per alcuni potrebbe diventare sì e no la palestra della sopportazione.

Troppi frati truci, nei conventi! Frati che rifiutano la tenerezza, perfino il semplice “buon giorno” giornaliero, che alcuni addirittura hanno tacciato di borghesia e di secolarismo. Senza tenerezza il convento si sfascia, e si riduce a un cumulo di doghe, tra loro sconnesse.

S. Francesco era chiaro sull’esigenza della tenerezza tra i frati: “E ovunque sono e si troveranno i fratelli, si mostrino familiari tra loro. E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le proprie necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, con quanto più affetto uno deve amare e nutrire per il suo fratello spirituale?” (Reg. c. VI). Nella Regola non bollata, al capitolo X, la tenerezza è ancora più chiara, fino a indicare che, se i frati non possono aiutare i fratelli malati, questi siano affidati ad altre persone.

Nei conventi perfino un eccesso di tenerezza non guasterebbe. Papa Francesco ci ha detto che sono necessarie forza e maturità per vivere la tenerezza.

07.07.13

Conventualità e novità 7

La conventualità, ben connessa nell’amore interno, è disponibile ad accogliere le nuove spinte che vengono dall’esterno? Se è molto compatta, non tende forse a fossilizzarsi? Questa è la paura di molti giovani, quando entrano in un convento tradizionale.

La risposta è semplice. Una famiglia dominata dall’amore, è naturalmente portata alla novità dei figli. L’amore autentico è aperto alla novità. Non viene sciolto dalla novità dei figli, anzi trova coesione più profonda, quando arrivano i figli. Un malinteso senso della novità, come dimostra la storia anche dei conventi, esige la distruzione totale dell’esistente, per poi... avere Hitler, Mussolini, Stalin, con tutte le loro conseguenze di morte, di lager, di gulag.
Se un convento è radicato nell’amore, è spontaneamente aperto alle novità, quando queste sono promozionali e perciò promoventi e non esercizi di stranezze. Soltanto viste corte e cuori aridi sono fissisti. E’ cuore arido quello che distrugge per poi costruire; è intelligenza corta quella che non sa cogliere, nel passato e dal passato, le linee dinamiche per il presente e per l’avvenire. Come è intelligenza corta l’imporre delle novità che non si armonizzano con l’ambiente, e che spesso dimostrano non arte, ma demenzialità.

Anche qualche corrente psicoterapica su base analitica, parte con lo scopo di distruggere il complesso difensivo esistente, che una persona ha eretto per restare viva. Il risultato, come dice ironicamente C. Rogers, è quello di creare esseri indifesi.

Riempite di amore una comunità conventuale, e questa sarà aperta anche alle novità. Dopo il Concilio Vaticano II, gli spiriti liberi si sono lanciati a nuove creatività, gli spiriti non aperti hanno creato Lefebvre.

Se una comunità si chiude e si difende dalle novità, o se distrugge il passato per il nuovo, dimostra di non amare.

08.07.13

Conventualità e nascondimento 8

Condizione per un amore reciproco, è la conoscenza reciproca.

Perfino Dio, l’Amore, esigeva la conoscenza di sé, per ricevere amore. Non conoscerlo è non amarlo, bensì ignorarlo o tutt’al più temerlo. Già nel profetismo ebraico Dio ha fatto trasparire la sua bontà, per sollecitare l’amore. Profeti e salmi indicano chi è Dio, per tributargli amore.

Quando Dio ha voluto farsi conoscere intimamente per intrecciare dialoghi di amore con i propri figli, si è svelato totalmente attraverso Gesù. La rivelazione è indirizzata all’amore. Amore donato nello scoprirsi totalmente, nel suo pieno denudarsi davanti all’uomo, per mostrare quanto lui ama e a quali cime di amore l’uomo può arrivare, nell’elevarsi fino all’amore di Dio.

Così nel convento. Conoscerci davvero per amarci davvero.

Ma intorno al conoscerci si assiepano molte resistenze, che non sono dovute solo al pudore.

La prima resistenza è prodotta dalla educazione al moralismo, di cui abbiamo già scritto.

La seconda è dovuta alla riservatezza, inculcata come virtù parente dell’umiltà. Ciascuno deve rimanere chiuso in se stesso: educazione a un egoismo pio, dove i doni di Dio devono restare nascosti. Il contrario di quel “vedano le vostre opere belle” indicato da Gesù.

La terza è l’opposto: vantarsi di quelle azioni, e solo di quelle, che ci facciano apparire belli davanti agli altri. Così si nasconde la maggior parte della nostra interiorità, che è l’opposto della verità e della luce.

Troppo riservati, chiusi nel nostro guscio per poter davvero amare ed essere amati.

09.07.13

Conventualità 9

Il convento è l’ambiente primario e familiare, dove si vive la carità e si esercita la carità. È il luogo, nel quale la presenza attiva dello Spirito Santo converte i nostri cuori.

Conversione quotidiana, che non può essere fittizia. Qualcuno la definisce formazione permanente. Cuore non convenzioni, movimento interiore non semplice comportamento esterno. Sincerità, non apparenza e atteggiamento superficiale.

La vita quotidiana, gomito a gomito, non solo fa scoprire le possibilità e i limiti di ciascuno, ma aiuta ad alzare lo sguardo per scorgere nell’altro l’immagine di Dio, e, in essa, l’indicazione del cammino. Gli altri sono sia l’allargamento delle possibilità del gruppo, sia i limiti dell’area di scorrimento di ciascuno, limiti che non raramente sono offesi, addirittura calpestati dagli altri.. La comunità non è ancora il paradiso in terra, come non è neppure l’inferno: essa è coefficiente di un itinerario, talvolta facile e talvolta scabroso. Eppure nulla, in questo itinerario, si sottrae alla presenza dello Spirito Santo, che è sempre conforto e stimolo.

Vivere la conventualità nello Spirito, è scoprire la conventualità come associata al vivere trinitario. Dove l’unità si associa, misteriosamente, alla pluralità, nell’armonia di una eterna pericoresi. Soltanto nel vivere insieme di una comunità, può attuarsi unità e differenza, ritiro e convivenza, tranquillità e movimento.

Soprattutto deve sempre predominare la carità, che è una “legatura” stretta, un imprigionamento nella libertà dello Spirito Santo.

Evidentemente ciò che avviene nella conventualità, avviene in ogni famiglia e in ogni gruppo stabile. L’esercitazioni spirituali della Quaresima si misurano anche nel vivere intensamento la conventualità e non solo nell’aggiungere nuove osservanze o nuovi incontri.

 07.02.14

Chiese conventuali 1

Negli scritti del primo Testamento (ossia la prima alleanza, detta Antico Testamento), Mosè si reca nella tenda del convegno, dove Dio gli comunica i suoi indirizzi. La tenda (siamo tra nomadi) è eretta fuori della tendopoli, dove, invece, si raduna il popolo. Un Dio staccato, perché collocato in un recinto consacrato. Presso qualche cultura, Dio è talmente considerato sacro e staccato, che quando una persona vuol pregare al di fuori del luogo stabilito per la preghiera, delimita con pietre un piccolo recinto, quasi a volerlo staccare dal resto del territorio, vi si infila e lì prega.

Il Dio sacro, il Dio staccato, il totalmente altro di R. Otto.

All’inizio del Vangelo di Giovanni, parlando dell’ominizzazione del Verbo, l’evangelista nota proprio che “eresse la sua tenda tra di noi”. Anche questo è segno che Dio è vicino al suo popolo, quello che egli chiama sua famiglia. Non una tenda appartata, ma una tenda tra le altre.

E’ l’intuizione di Francesco. Infatti il monachesimo erigeva le abbazie fuori e lontano dall’abitato. Chi non rammenta Monte Rua, e Camaldoli, per esempio? Francesco vuole che il suo movimento viva negli abitati, e lì i frati facciano il raduno, lì essi convengano (“convento” dal convenire!).

Il convento non è un monastero, ma è una casa tra le altre, anche se a quella casa si unisce una chiesa dove il popolo può “convenire”, ossia allargare il “convento”. Si parla perciò non di conventi chiesali, ma di chiese conventuali. Chiese di frati per il raduno dei frati e delle persone, che desiderano vivere lo spirito francescano.

30.07.13

Chiese conventuali 2

Le chiese conventuali, nel tessuto della realtà acclesiale, vantano caratteristiche proprie.

Storicamente, quando Francesco d’Assisi si trovò con i primi compagni e seguaci, esistevano due categorie di chiese: la chiesa parrocchiale e il duomo, e la chiesa monastica. Inoltre si recensivano luoghi di pellegrinazioni con cappelle proprie.

I conventi francescani primitivi non avevano una chiesa propria. Per i francescani vigeva la nota itineranza in patria e all’estero, in missione tra i Saraceni, o tra gli eretici.

Ben presto, a distanza di pochi anni dall’inizio, presso i raduni stabili dei frati (conventi) si eressero delle cappelle per la preghiera e per la messa.

Le caratteristiche di queste chiese non seguivano né le chiese monastiche, né quelle parrocchiali. Erano chiese sia per il raduno dei frati, sia per accogliere quei popolani che si sentivano attratti dal vivere dei francescani. Chiese quindi a servizio del popolo: ricordiamo che pure i frati sono popolo.

La chiesa conventuale, non monastica nè parrocchiale, è un continuo richiamo alla spiritualità. La presenza di sacerdoti per le confessioni sacramentali, e l’ufficiatura semplice della messa e delle ore liturgiche, rappresentano un servizio continuo alla gente, in modo particolare a coloro che si sentono portati a vivere la spiritualità delle comunità presente in quella chiesa.

Ovviamente, a Vicenza un esempio caro e da mantenere è rappresentato dal Tempio di S. Lorenzo, oasi di spiritualità francescana.

22.08.14

Chiese conventuali 3

Assodato che il francescanesimo è una religione popolare, cioè per il popolo e nel popolo, anche le chiese francescane dell’inizio, ossia quelle dei conventi, furono collocate tra la gente. Mi piace sempre definire la nostra chiesa di S. Lorenzo un’oasi di spiritualità nel centro della città. Oasi non perché solitaria, ma perché abitata da chi vi entra.

Ai tempi di S. Francesco, i religiosi (monaci) erano radunati fuori città in una cittadella autosufficiente, cioè con una economia curtense. Anche all’arrivo dei francescani a Vicenza, esistevano nobili monasteri, al di fuori delle mura cittadine. Ancor oggi vediamo l’esempio di S. Agostino, oppure di S. Felice e di altri. Merito grande dei monasteri, oltre all’impatto spirituale, fu anche la grande opera di bonifica: e il territorio vicentino ne sa qualche cosa fino dal secolo nono.

Francesco creò un movimento urbano. I primi frati restavano tra la gente, dormivano dove potevano, perfino sui sagrati delle chiese.

Pure la prima chiesa francescana di Vicenza, quel S. Salvatore e poi quel S. Francesco Vecchio, era stata eretta dentro la mura cittadine. Quando i frati furono invitati o costretti dai canonici, e comandati dal visitatore dell’Ordine a cambiare sede per non coabitare con le prostitute, allora i francescani accettarono di traslocarsi, ma sempre all’interno delle mura, presso l’antica Porta Nova. Ed eccoli accasati prima presso l’antica cappella di S. Lorenzo, e poi presso il grande Tempio di S. Lorenzo.

I conventi primitivi eressero le chiese, che si dicevano conventuali, e i frati stessi erano frati che convenivano in un luogo cittadino, ossia in un convento.

22.08.14