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Povertà e lavoro

Mi diceva l'amico Angelo (non quello che ora abita nel convento con me): quando in convento posso rivivere la condizione di povertà, nella quale mi trovavo da bambino a casa mia, mi sono sempre sentito leggero e contento. Quando invece mi hanno costretto a vivere borghesemente, ho patito una grande tristezza.
     La povertà di casa mia era un gareggiare di mio padre e di mia madre nel trovare soluzioni per sbarcare il lunario, per risparmiare, per avere mille piccole iniziative a beneficio della famiglia. Una povertà alacre e intelligente.

Io ho cominciato a sentirmi a mio agio, quando sono riuscito a guadagnare col sudore della fronte, senza pretendere che tutto sia dato alla mia stupida passività, che altri scambiano per povertà.
     È molto bello il concetto che tutto deve essere in comune. Però questo non può scambiarsi per passività degli uni e superfatica per gli altri. È curioso notare che le encicliche sociali, scritte con molta saggezza dai papi, affermino che il lavoro fa parte della dignità umana e che un giusto stipendio sia il naturale complemento del lavoro, e poi per i religiosi queste norme naturali non sono applicabili. Perché?

La povertà non è confondibile con l'indigenza, e perciò è errato unire nella stessa comunità un indolente con un povero che guadagna di che vivere.
      Finisce che l'indolente, per non sentirsi umiliato cerca di distruggere il povero attivo. Lo so perché lo vedo.
     A questo punto frenai Angelo, perché non riuscivo a capire dove sarebbe andato a parare. Gli chiesi: "In poche parole, che cosa vuoi?".
     Mi fissò con un profondo rimprovero negli occhi neri, come se si lamentasse di non esser stato capito.
     Dopo qualche secondo e un sospiro, a voce calma mi disse: "Che mi lascino lavorare in santa pace!".

GCM, 08.08.03