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Amen

Amen: è vocabolo usato da almeno due miliardi e mezzo di persone.

E’ un lemma ebraico, trascritto pari pari in greco, in latino e nelle lingue moderne. La radice è una forma (nifal) del verbo ‘aman, che significa sia una cosa sicura, sia un sentirsi sicuro (ossia aderire con certezza).

“Amen” si usava nei giuramenti, nelle testimonianze nei tribunali.

Però già anticamente era in uso di adesione (liturgica o meno) al Dio sicuro, il Dio dell’amen. Adesione alla persona e alla parola. Perché il Dio è amen, o anche aletheia (verità).

Il valore teologico è evidente soprattutto nel Nuovo Testamento.

Gesù, che parlava l’aramaico, quando voleva indicare una certezza, ricorreva al termine ebraico usuale: amen.

Con questo vocabolo sottolineava la proprio autorità: “Amen (in verità, sicuramente) io vi dico”. Non solo la propria autorità, ma anche il valore inconfutabile della verità, che egli annunciava. Tali verità su Dio, su se stesso, sulle indicazioni comportamentali, erano indicate come strettamente vincolanti.

Nell’Apocalisse l’amen fa parte del culto celeste: sì, amen, è la conclusione di ogni affermazione e e di ogni lode.

Gesù stesso è chiamato amen. E Paolo (2 Cor 9,20): Tutte le promesse di Dio in Gesù sono sì.

A Dio, attraverso Gesù (il sì!) salgono le nostre lodi a Dio.

Che cosa dire dei nostri scialbi “amen” durante la liturgia? Sono grida di certezza, di adesione, di conferma personale alla verità annunciata, o alla preghiera espressa? Sono l’entusiasmo veicolato nell’esplosione della parola? E noi invece lo diciamo, anche nel ricevere l’Eucarestia, come un “sia finita e amen”...        

GCM 07.03.13