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Tentazione e preghiera

Leggo in un vecchio vocabolario italiano (dodicesima  ristampa: 1952!) la traduzione un po’ libera del “non ci indurre in tentazione”. Recita: “Non permettere che noi cadiamo in peccato”.

Su quella frase molti hanno riflettuto e discusso, perché il verbo “indurre” in italiano ha sempre una vena di intenzione cattivella. Si induce con modi melliflui o perfidi per portare le persone ad accettare profferte non confacenti ai desideri dell’indotto e comodi ai desideri dell’induttore.

Forse sembra più acconcio un “non introdurre” dentro la tentazione: ossia un tenercene fuori. Gesù era stato introdotto nel deserto, dove rimase quaranta giorni, tentato da satana: così ci riferisce il Vangelo di Marco. S. Matteo scrive più esplicito: “Gesù fu condotto dallo Spirito, per essere tentato dal diavolo” (4,1).

Qui sembra che lo Spirito lo conduca nel deserto, proprio allo scopo di essere tentato, come appare dal verbo all’infinito. S. Luca dice che “rimase quaranta giorni tentato dal diavolo”.

Gesù parte dalla propria esperienza per tenere lontano dalla tentazione i suoi. Perciò il “non indurre” o il “non introdurre” sono acconci a indicare la fuga da un’esperienza, che potrebbe essere un tranello per non “essere liberati dal male”.

Ci aiuta il testo greco che si esprime con un “eisfero”, ossia “portare dentro”. Non portarci dentro la tentazione, non è un semplice “aiutaci nella tentazione”, ma un evitare la tentazione. Perciò l’evitare qualsiasi tentazione, soprattutto quelle che sono sollecitate dal nostro egoismo, non può essere realizzato con le semplici energie umane, ma richiede la entrata nelle mani di Dio, per non entrare nella tentazione.

17.01.14