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Teologia e finitudine

Perché, come scrive qualche autore, esiste una “dignità teologica della finitudine”?
L’essere creati “incompleti”, ossia finiti acquista un valore, se lo si considera con l’occhio “teologico”, ossia con l’occhio che “guarda Dio”.
Guardare Dio è possibile in molti modi: con la riflessione, con lo sguardo poetico sul mondo, con l’accostamento ai dettati profetici, ma principalmente guardando Gesù: “Chi vede me, vede il Padre”.
Perciò la finitudine, la nostra povertà (nel tempo, nelle qualità, nelle possibilità…) è un fatto teologico, tanto valido che la povertà, secondo le parole di Gesù, è beatificata. La finitudine, di per sé, è segnata dall’assenza, da ciò che manca. Manchevoli ci ha voluti Dio (cfr. il cap. 8 della Lettera ai Romani, dove si parla della vanità della creazione). Creati manchevoli, ma non condannati alla manchevolezza, perché la “vacuità” del nostro esistere, è un vuoto dinamico, un vuoto che attende di essere riempito: un vuoto funzionale.
La funzione del vuoto, è necessariamente quella di essere riempito. È il vuoto della creazione che attende e reclama di diventare la rivelazione dei figli di Dio. È il vuoto non della disperazione e del suicidio, ma della speranza e della vita.
La dignità della finitudine è insita nella sua funzione di accoglienza di Dio. Quel Dio accolto nello stesso corpo di Gesù, che quasi sequestra Dio nel mondo umano. È sempre Gesù colui che immette in noi quella infinità di Dio, che lui stesso possiede, e prolunga in noi l’accoglienza di Dio, che lo ha fatto l’Uomo-Dio.
 12.09.14